Rosso, verde e blu oppure giallo, ciano e magenta. Non mi sono mai posto il problema. Queste distinzioni da grafici non valgono, non per me. Non importa: non ho mai dato troppa importanza a nessuna di queste antiquate regole, le ho sempre ritenute un concetto ben più che superato.
L’unica cosa che ha importanza è la scala di colori avvertita dai clienti; mi adeguo con estrema facilità. Sono parecchio apprezzato per questa particolare abilità. Dopotutto è per questo che chiedo loro un lauto compenso. Forse il tipo di arte che pratico si rivelerà essere soltanto una moda passeggera, ma questo non è uno di quei pensieri in grado di tenermi sveglio la notte. So adattarmi con estrema disinvoltura e ho coltivato questo talento fino dagli anni dell’accademia. Mi è sempre riuscito piuttosto naturale lavorare su commissione; si tratta principalmente di seguire fedelmente una consegna, proprio come accadeva sui banchi di scuola. Già allora bastava appropriarsi di uno stile fino al punto da riuscire a riprodurlo fedelmente. «L’artista deve imparare i canoni e una volta appresa la tecnica la disimparerà», ripetevano sempre i miei insegnanti. Ma in realtà quello che imparai su quei banchi fu soltanto la mimesi. Dai compagni più diligenti, quelli che con maggior affetto venivano lodati dai professori, avevo osservato l’arte della mutevolezza. A scuola era così che ci si diplomava: studiando i grandi maestri del passato, era necessario carpire i segreti della tecnica che li aveva resi famosi; ci si esercitava fino a quando non si era in grado di riprodurre meccanicamente ogni particolare, ogni accento, ogni inflessione. L’anima di un dipinto veniva passata allo scanner, codificata e riprodotta in serie da uno sciame di piccole formichine industriose. Mentre la creatività, quella o ce l’avevi oppure niente. Se possedevi quel particolare estro eri un privilegiato, ma quella scintilla non era considerata come una qualità fondamentale: al contrario, non era nulla di così eccezionale; stava a te crescere e far maturare le tue abilità, vere e presunte che fossero. La retta ti consentiva l’accesso ad un’istruzione adeguata, la strada la dovevi trovare da te. Al giorno d’oggi, chi è in grado di distinguere arte e grafica? Esistono ancora i grandi artisti, questo è vero; tuttavia, sotto la patina di gloria esistono almeno tre generazioni di creativi di second’ordine, impiegati e scribacchini dell’arte, animatori dotati di un grande talento, quello dell’adattabilità. Dopotutto questo è un mondo che da quasi un secolo vive con un pressante e incessante bisogno di manodopera a basso costo.
Quanto a me, ho accettato questi insegnamenti con un’alzata di spalle; sono sempre esistiti allievi delusi dal corso di studi intrapreso, la storia dell’arte è piena di aspettative disattese e di profonde delusioni. Ritenevo che lo studio dovesse far emergere i miei veri interessi, le inclinazioni insospettabili che si celavano dentro il mio animo desideroso di guadagnarsi da vivere grazie al prodotto che poteva scaturire dal mio ingegno. Volevo trovare la mia strada, creare il mio stile, la firma che mi avrebbe permesso di apporre la mia firma in questa vita. «Vivere di sogni, sognando il mio mondo». Ripetevo queste parole ogni sera, prima di coricarmi; alla mattina davanti allo specchio, prima di farmi la barba ricorrevo nuovamente al mio mantra. Sentivo all’interno del mio spirito che avevo qualcosa da esprimere. Non sapevo bene di preciso cosa fosse, ma sentivo che c’era. Avevo bisogno di crederlo: qualcosa che andava fatta come si deve, per cui valesse la pena vivere. Il mio scopo, la mia arte era la fuori che mi attendeva. O forse era semplicemente dentro di me. Quello di cui avevo viva paura, era di risvegliarmi in un mondo in cui esisteva un’arte senza gli artisti.
Poi, una domenica mattina, ebbi l’illuminazione. Ero a pranzo dai miei genitori; un rituale al quale, per necessità e per affetto, difficilmente rinunciavo. Mentre mia madre serviva il dolce, raccontò una curiosa avventura capitata nel regno di Morfeo, un’esperienza che le aveva concesso un sogno ristoratore e un incrollabile ottimismo che ancora la pervadeva. Aveva sognato di sconfiggere una delle sue più grandi paure; dovete sapere che mia madre è stata sempre terrorizzata dall’idea di prendere un aereo. Quella notte aveva sognato di volare grazie ad un leggero sforzo della mente: mentre rimaneva concentrata era in grado di librarsi nell’aria e di uscire in volo dalla finestra spalancata. Mentre gustavo una seconda fetta di quella deliziosa cheesecake, mamma raccontava di come era bella la città che aveva visto dall’alto, soffermandosi sulle sensazioni che l’esperienza onirica aveva suscitato in lei.
«Era come sentirlo davvero, io stavo volando per davvero», ci raccontò.
«Era come se fossi davvero la tra le nuvole e la sensazione era vera: come se sfrecciassi in autostrada alla guida di una decapottabile: sentivo il vento sulla pelle. Come era realistico. Credetemi se vi dico che è stato un vero peccato svegliarsi così, sul più bello».
Senza volerlo, mamma aveva piantato un seme, una piccola scintilla che presto avrebbe fatto avvampare il fuoco della creatività artistica. Dopotutto non lo ripetevo sempre a me stesso? Vivere di sogni, sognando il mio mondo. Ero stato così cieco da non accorgermi che la soluzione era proprio lì, a portata di mano? Ero così preso dal riempirmi la bocca di belle parole sui sogni che mi ero dimenticato della possibilità, anzi, del dovere di averne uno. I tempi cambiano, ma le persone restano. Gli artisti e coloro che si credono tali sono tutti uguali: ognuno coltiva dichiaratamente il sogno di riuscire a guadagnare facendo arte; è stata proprio questa parola, il sogno, e l’utilizzo appassionato che ne aveva fatto mia madre evocando quelle immagini alla fine di quel fatidico pranzo domenicale a farmi scoprire lo stile personale che tanto avevo cercato tra le tele e gli schermi della scuola d’arte. Battezzai questo concetto artistico con il nome di Es, Eterea Sembianza. Volevo prendere le esperienze oniriche delle persone e renderle vive, in modo da camminare anche da svegli nel proprio mondo interiore.
Scrivere con i sogni, disegnarli e conferire loro una dimensione di realtà tangibile, fruibile da tutti. Vivere il proprio sogno facendo vivere i sogni degli altri: quanta poesia in questa intuizione che inavvertitamente era scaturita da mia madre per infiammarmi l’animo. Da queste convinzioni ho maturato la mio concetto creativo basato sulle proiezioni olografiche; una tecnologia ormai superata, adatta per i lounge bar per i nostalgici del ventunesimo secolo. Obsoleta forse, per il resto del mondo ma perfetta per il mio progetto. All’epoca ero convinto che fosse la mia strada, il mio cammino verso la maturità artistica e la felicità, il tanto sospirato appagamento in una vita fatta di attesa.
Gli ologrammi ormai sono passati di moda da mezzo secolo, ma questo è stato per me un vantaggio non trascurabile: da ragazzo nell’officina di mio padre ho sviluppato una certa abilità con i lavori manuali e per ammazzare la noia spesso mi dilettavo a montare e smontare alcuni sistemi semplici. Papà non ci badava e mi lasciava fare, insegnandomi quando ne aveva il tempo i rudimenti di elettronica e programmazione. Robetta da niente, abbastanza eccitanti da tenere occupata la fervida voglia di sapere di un fanciullo che non riusciva a stare mai fermo. Ad ogni modo, per chi mastica un poco di ingegneria non è poi così difficile costruire un proiettore con tecnologia tridimensionale ad alta definizione, i costi non sono per niente elevati: per recuperare i componenti mi affidavo ai negozi specializzati nel fai da te. Nemmeno l’assemblaggio rappresentò un problema insormontabile. Basta seguire le istruzioni dai tutorial facilmente reperibili in rete, attrezzarsi con un po’ di buona volontà e dell’olio di gomito e il gioco è fatto. Quello che si rivelò problematico fu il riuscire a trovare la materia prima. Mi accorsi subito quanto potesse rivelarsi difficile avviare quello che sarebbe diventato un business. Inizialmente dovetti scontrarmi con la remissività dei miei diffidenti clienti: non sempre è facile accogliere una novità, un bisogno nuovo deve essere instillato con amichevole decisione. Per di più, affinché il mio lavoro fosse soddisfacente, occorreva che il cliente si aprisse liberamente, lasciando fluire i ricordi delle evanescenti avventure vissute nel mondo dell’inconscio. Il problema era proprio questo: chiedevo alle persone un’eccessiva sincerità e la visione onirica è quanto di più personale si possa sperimentare; raccontare ad un estraneo presuppone un rapporto di fiducia particolarmente saldo, conosco storie di analisti che hanno impiegato diverse sedute per farsi largo tra le naturali difese che un paziente è solito erigere. Le persone hanno difficoltà ad ammettere tutte le sfaccettature, le mille sfumature opalescenti di cui sono composte. «L’arte è dolore», avrebbero detto i professori all’accademia, nell’atto di adottare la solita posizione retrò.
Non sono uno strizzacervelli: di conseguenza non sarei riuscito ad ottenere quel tipo di apertura e nemmeno ero interessato ad intaccare l’integrità della coscienza; tuttavia, non certo per questo mi sarei dato per vinto. La mia perseveranza fu premiata: è incredibile quanto le cose della vita tendano ad incastrarsi perfettamente in un solo e fatale momento, quando tutto sembra muoversi seguendo il giusto schema e i tasselli del puzzle combaciano perfettamente. A volte la vita, quando ti stai incamminando verso il tuo obiettivo, ha l’accortezza di farti incontrare ad un crocevia ciò di cui hai bisogno per continuare il percorso. Quasi casualmente grazie ad una conversazione con un amico che stava svolgendo tirocinio presso un famoso analista venni a conoscenza di un programma sperimentale applicato alla psicoanalisi: si trattava in buon sostanza di un software in grado di leggere gli impulsi elettrici emessi dal cervello durante la fase Rem e di trasformarli in immagini. I suoi creatori l’avevano chiamato psicocaptatore: un buon aiuto per gli psicoterapeuti alla prese con clienti restii a rivelare le parti più inconfessabili del loro essere. Per me era soltanto un futuristico masterizzatore di dvd, pardon, di menti. Tralasciando i tecnicismi, il funzionamento del macchinario è molto semplice, molto simile a quello che veniva mostrato in un vecchio film di fantascienza con quell’attore palestrato.
Ad ogni modo, dopo mille insistenze da parte mia, sono riuscito a mettere le mani su una versione del macchinario. Si è trattato di un vero e proprio investimento e devo confessare che a quel tempo non sarei mai riuscito a far fronte all’onorario che mi fu richiesto, non da solo almeno. Dico soltanto che in quel caso fui molto fortunato perché potei contare sull’aiuto e la garanzia di una persona in particolare. Non dirò nulla di più sull’argomento, sono fatti personali che credo non interessino più di tanto. Quello che a parer mio è davvero importante sta nel fatto che nel giro di un solo semestre fui in grado di ripagare abbondantemente il mio benefattore, che godrà sempre della mia gratitudine per la fiducia dimostratami e per aver creduto in me soprattutto in quella fatale occasione.
Ad ogni modo, grazie agli standard tecnologici, non è stato per niente difficile rendere i due sistemi – lo psicocaptatore e il proiettore olografico, compatibili tra loro. Finalmente il progetto Es era una realtà artistica a tutti gli effetti.
La mattina era il momento più stressante, poiché il tempo lo dedicavo a ricevere i clienti nel mio atelier ricavato da un vecchio capannone industriale abbandonato. Arrivano sempre trafelati, cercano di ricordare più dettagli possibili della notte prima. All’inizio tentavo di spiegare loro che non era necessario, ma alla fine ho imparato a lasciarli fare: la mia committenza pare provare un certo piacere nel raccontarmi i deliri notturni. Tutto ciò non è necessario; certo, il macchinario funziona più velocemente se la reminiscenza è fresca ma si tratta soltanto di tempistica. A tal proposito ero solito chiedere ai miei interlocutori di tenere un diario dove annotare sensazioni e dettagli che potevano saltare alla memoria in un secondo momento. In questo modo ho evitato un sacco di interminabili telefonate. Ad un primo incontro preliminare in cui si discuteva principalmente sulla natura dell’opera che sarei andato a realizzare, arrivando a mettere nero su bianco un primo progetto di installazione sull’ambiente che il cliente intendeva riempire con gli ologrammi.
Seguiva poi un secondo incontro in cui facevo accomodare il cliente su un lettino, mentre, per sveltire le operazioni, spiegavo la procedura; a questo punto iniziato a preparare il macchinario, avviando la procedura preliminare di accensione e interfacciando uomo e macchina mediante l’applicazione di qualche elettrodo. Come accennavo, il processo può durare un po’ di tempo, tutto dipende da determinati fattori, non ultimo il grado di predisposizione nel rivelare una parte di sé: come dicevo spesso ai miei clienti, è importante essere sinceri, aprirsi completamente anche solo per un attimo. Una responsabilità terribile: una volta rivelato un segreto, non può più essere tale. Ovviamente, a questo punto del lavoro subentrava un nuovo accordo segreto che avremmo custodito gelosamente io e il committente. La visione su schermo della bozza andava revisionata secondo gusti e desideri e capitava non di rado che mi si richiedesse di omettere qualche particolare, oppure di adombrare un dettaglio scomodo, imbarazzante e scabroso che la mia facoltosa committenza non voleva.
Si trattava di censurare qualche piccola perversione oppure un’innocente sconceria. Mi ritrovavo così a riscrivere e riprogrammare, inserendo immagini e modificando animazioni al simulatore, per poi far girare il programma nei test per constatare se la struttura fosse solida e coerente verso consegne e innumerevoli correzioni e ripensamenti dettati da vanità ed interesse. Per come la vedevo non c’era nessun problema: la discrezione dopotutto fa parte dell’accordo, mi dicevo. E anche del compenso.
«Lavora bene e prima o poi i tuoi forzi verranno ripagati abbondantemente», soleva ripetere mio padre. Per mia fortuna i primi clienti arrivarono fin da subito. Dopo aver installato diverse opere a casa di amici e parenti, giusto per impratichirmi, venne nel mio studio il gestore di un famoso bar rinomato per servire cocktails parecchio ricercati; aveva già dimestichezza con la tecnologia che adoperavo, anni addietro l’aveva impiegata per abbellire una sala del locale. Incuriosito dalla pubblicità virale che avevo messo in moto sul web, voleva una delle mie “sculture tridimensionali”, come le chiamava lui, per decorare una sala del loft nel quale abitava. A tal proposito mi raccontò di un sogno nel quale aveva condiviso un’avventura lunga una sera soltanto con una splendida attrice che andava tanto di moda in quel momento: voleva averla tutta per lui ancora una volta, in modo da poter prolungare il piacere di quella notte ogni volta che avesse voluto.
Si trattò di un lavoro piuttosto semplice: voleva installare un proiettore rotante su un tavolo in modo che potesse emettere diverse forme in continua evoluzione, proprio come era accaduto nei suoi estasiati ricordi. Inutile dire che non fu difficile soddisfare le aspettative di quell’uomo, che contribuì a modo suo al passaparola.
I primi clienti chiesero sempre qualcosa di semplice: un paesaggio montano che con suggestioni sonore richiamasse la frescura di un ruscello in primavera, nuvole mutevoli che contornavano sipari invisibili colmi di biblioteche di pensieri calorosi e azioni coraggiose. Col passare del tempo le visioni richieste si fecero sempre più astratte e ricercate: una signora facoltosa sosteneva di aver sognato una strana sostanza solida in grado di cambiare forma e consistenza, un curioso materiale che cercava di raggiungere ma che sembrava sfuggirgli continuamente. Aveva ricordi piuttosto vaghi riguardanti il sogno: era abbastanza sicuro che il solido, una volta diventato acquoso, si elevava nell’aria fino a diventare una manciata di povere verdastra.
Insieme con le richieste, aumentava di pari passo anche la mia abilità nel maneggiare quella tecnologia: i miei ologrammi diventavano di volta in volta più raffinati e realistici, evanescenti e solidi allo stesso tempo. Rimasi soddisfatto quando riuscii a realizzare uno scontro tra due equipaggi di pirati di cui un mio cliente aveva identificato sé stesso come il più valoroso dei bucanieri impegnati nella battaglia. Volevo cogliere ogni piccola sfumatura e scriverla nell’aria viziata di un ambiente chiuso, ambivo allo stupore e alla meraviglia; guardavo al mondo dei sogni e volevo entrare nella storia dell’arte come un demiurgo con gli occhi da bambino, un’avanguardia in un mondo dove tutto era già stato fatto.
Di sicuro agli albori di questa fortunata avventura, all’interno del mio animo distaccato, mai avrei immaginato una simile esplosione di popolarità. Al di là di ogni mia aspettativa, ho vissuto un momento davvero fortunato. Gli Es cominciarono e prendere piede e ricevetti diverse proposte di collaborazione da parte di artisti emergenti. Alcune gallerie si interessarono alla mia idea e per qualche mese ottenni uno spazio espositivo alla Mostra Permanente dello Studio Pinax, il più prestigioso spazio che un giovane come me potesse mai pensare di occupare.
Ricordo molto bene gli aperitivi e le tartine, tutti quei vestiti eleganti e le belle parole di elogio mentre la curatrice della mostra descriveva il mio lavoro. Ma sopra ogni cosa, ricordo la commozione di mia madre quando entrò nella sala e vide la sua immagine librarsi nell’aria e volteggiare attraverso la stanza. Mi commossi insieme al suo volto al culmine della gioia e dello stupore. In quello stesso momento ne ebbi la certezza: non avevo creato qualcosa che andasse bene soltanto a maniaci e repressi, ma c’era anche dell’altro, fanciullesco e puro, che albergava ancora nell’animo umano. Per un attimo fui davvero appagato dal mio operato.
Questa mia personale età dell’oro durò per diverso tempo. Ancora adesso fatico a riconoscere i limiti temporali appropriati del mio successo: il fatto era che sentivo che in un momento non meglio definito mi ero immancabilmente perso. Dove fossi non potevo determinarlo con certezza. Nel mio intimo sapevo che non era l’approvazione dei miei genitori quello che cercavo: non le lacrime di gioia di mia madre, non gli aneddoti densi d’orgoglio che mio padre aveva l’abitudine di raccontare agli amici del circolo del quartiere. Stando alle mie convinzioni, ogni corrente artistica maturava all’interno del rifiuto della tradizione precedente. L’arte è innovazione, spirito del mondo e dell’individuo, un nuovo cammino che parte da binari predefiniti, la nuova destinazione d’uso di un oggetto comune. L’espressione è una profonda cesura, un funambolico volo di virtuosismo e sperimentazione, un fuoco che arde ancora sotto la grigia cenere. E mi trovavo seduto al centro del mio studio, pensando al mio lungo viaggio, accorgendomi per la prima volta di quanto fossero impolverate le mensole sulle quali giacevano, dimenticati, i miei pennelli.
Al centro dello studio troneggiava lei, la macchina. Issata su un treppiede scintillante, catturava la luce che proveniva abbondante dalla finestra, proiettando sul pavimento un’ombra oscura, colossale e terribile. Avevo dato un nome alle mie installazioni artistiche, ma curiosamente non ne avevo mai dato uno a quell’aggeggio. Quella cosa era soltanto la macchina, un’enorme zanzara meccanica con neri tentacoli in grado di risucchiare i sogni delle persone; un sommesso ronzio annunciava il rituale della caccia mentre io, servo/padrone, conducevo tra le sue fauci le vittime che ero riuscito a procurare. Mi accorsi che segretamente, avevo imparato ad odiarla. C’era qualcosa di insopportabile anche negli Es, anche se non riuscivo ad afferrare con chiarezza il motivo di quel disgusto. Era come se ne avessi abbastanza di tutte quelle finzioni. Forse avevo creato un mondo nel quale soltanto io ero sveglio, forse era davvero così. Ero l’unico essere a non essermi ancora addormentato. Magari in quella solitudine nella quale mi ero autoesiliato cercavo compagnia e l’avevo trovata in quell’odiosa macchina, quella figlia capricciosa che avevo generato con così tanta leggerezza; così la svegliavo, anche se sapevo che era in grado di fare soltanto due cose: mangiare sogni e defecare illusioni. Forse ero destinato a condividere la mia solitudine con quell’infame compagna che pretendeva sempre di più. Una terribile paura si celava nel mio animo: un giorno, stanca delle menti dei dormienti, avrebbe rivolto i suoi tentacoli contro il suo creatore avvolgendomi in un terrore oscuro dal quale non mi sarei mai più ripreso.
Fu in quel momento di orribili meditazioni che venne a trovarmi un caro amico.
Rivedere Bastiano dopo tanto tempo fu come se un naufrago avesse visto la luce di un faro all’orizzonte; la metafora mi calzava come un guanto poiché ormai ero straniero all’interno di un ambiente che sarebbe dovuto essere familiare, ma che incredibilmente stentavo a riconoscere. Il mio amico mi face i complimenti per l’ultima esposizione che aveva gradito parecchio. Disse che il discorso che pronunciai al momento dell’inaugurazione fu illuminante e motivo di ispirazione, dalla prima fila non aveva perso una sola sillaba. I pezzi che avevo esposto lo avevano riempito di entusiasmo a tal punto da convincerlo a ritornare una seconda volta ad ammirare le meraviglie che avevo esposto.
Mentre tesseva lodi esagerate, mi ritrovai a pensare a quell’inaugurazione che Bastiano aveva citato. Quanto tempo era passato? Stando ai suoi ricordi la mostra aveva aperto i battenti non più di due settimane fa, eppure mi sembrava che le mie nuove opere fossero esposte da almeno due mesi. Quanto a Bastiano, non ricordavo di averlo visto all’inaugurazione; a dire il vero in quell’occasione non mi sembrava di aver visto nessuno che conoscessi. Ricordo solo quello sterco colorato, le mie meraviglie.
Non ricordo tutto ciò che il mio amico mi raccontò: probabilmente voleva aggiornarmi sui momenti salienti della sua vita, la nascita di sua figlia e tutti quei piccoli grandi successi che la vita sa offrire. Inutile dire che sapevo già tutto dai dettagliati resoconto di mia madre ma lo lasciai fare: oltre all’ammirazione che traboccava da parole e gesti, c’era qualcosa di così squisitamente armonioso nella sua voce. Iniziai a sperare di potermi confidare con lui, metterlo al corrente della tempesta che celavo nel mio animo, disfarmi di quelle maschere insidiose una volta per tutte. Purtroppo in poco tempo fu chiaro che la sua non era una visita di piacere fine a se stessa, Bastiano era venuto per commissionarmi un Es. Pareva infatti che quella stessa mattina si fosse svegliato da un sogno parecchio singolare che l’aveva messo di buon umore. Senza pensarci troppo, aveva deciso di venire a farmi visita; dopo tante mostre nelle quali aveva osservato senza mai partecipare ad un acquisto, aveva finalmente trovato qualcosa che avrebbe potuto simboleggiare la nostra lunga amicizia. Mise subito in chiaro che avrebbe accettato di sostenere il costo dell’opera senza sconti o trattamenti di riguardo.
«Dopotutto non tutti possono vantare l’opera di un maestro», sentenziò orgoglioso. Aggiunse inoltre che il sogno che avrei elaborato dalla sua mente era qualcosa di veramente raro, una sfida al mio concetto di arte figurativa. Non ero per niente impressionato; incuriosito, forse, ma non più di tanto. Non era certo la prima sfida che mi veniva lanciata: da tutti i sogni che avevo digitalizzato avevo imparato che nonostante molte cose ci appaiano indescrivibili, restano comunque disegnabili. Spiegai al mio amico che la macchina avrebbe fatto il suo lavoro anche questa volta: gli impulsi elettrici sarebbero stati scannerizzati, copiati e convertiti nella stessa immagine che aveva sognato la scorsa notte. Bastiano ascoltò la mia atona spiegazione mentre il suo sorriso entusiasta si increspò di una lieve sfumatura beffarda.
«La sfida che ti propongo sta proprio in questo», disse dopo che lo feci accomodare all’apparecchio, «non ho mai detto di aver sognato per immagini. Quello che ricordo è una melodia, della musica». Non riuscivo ad afferrare cose intendesse dire; era capitato che sognassi il suono della sveglia per poi scoprire che i suoni erano entrati nel dormiveglia, credevo si riferisse ad una sensazione simile. Bastiano scosse la testa: quella che aveva sentito era musica autentica ed inedita. Non riusciva a ricordarla e neanche sforzandosi avrebbe saputo fornirmi qualche dettaglio in più, sapeva soltanto che al suo risveglio si era sentito fresco e riposato, felice. Tutto questo mistero mi spazientì, anche se cercai di non darlo a vedere: da quando aveva sviluppato velleità da compositore? Oppure gli serviva un carillon per la sua figlioletta? Senza perdere altro tempo in chiacchere, azionai la macchina che con il solito ronzio si mise all’opera. Curiosamente, l’elaborazione dei dati impiegò poco tempo. attesi con impazienza che le prime immagini apparissero sul monitor, non vedevo l’ora di veder svanire quel sorrisetto divertito. Quello che accadde mi fece saltare un battito di cuore: la schermata di caricamento si interruppe bruscamente per lasciare spazio alla frase “Contenuto non disponibile”.
In tanti anni di Eteree Sembianze non era mai successo, era la prima volta che capitava che una digitalizzazione non andasse a buon fine. Riprovai una seconda volta, invano. Bastiano intanto si era tirato su dal lettino e osservava in disparte. La sua presenza mi infastidiva, ma come potevo incolparlo se la macchina si ostinava a non funzionare? Forse si era guastata?
Chiesi al mio amico se era disponibile per una nuova lettura dei tracciati celebrali. «A volte qualche imprevisto può succedere», mentii ,mentre le mani tradivano la mia agitazione. Lui fu cordiale e disponibile, accettando la mia alterazione come un capriccio da artista in piena fase creativa, ma la verità era un’altra: semplicemente non potevo accettarlo, era come se rifiutassi di accogliere la notizia della morte di una persona cara. Provai a spegnere e riaccendere, impostai nuovi parametri ma la scansione dava sempre lo stesso risultato. Provai a cambiare approccio e attivai i filtri sinestetici ma il risultato rimase lo stesso; per quanto mi sforzassi il contenuto si ostinava nella sua indisponibilità.
Il pomeriggio passò lento mentre imperterrito continuavo ad elaborare, cercando di decriptare il codice. Nonostante il mio amico avesse cercato di dissuadermi dicendo che non c’era nessun problema se quella melodia andava perduta per sempre, non avevo intenzione di arrendermi. Mi aggrappai con disperata determinazione al computer e continuai a lavorare tutta la notte, anche quando Bastiano decise che ne aveva avuto abbastanza. Ero sordo ai morsi della fame e nella mia follia sentivo la macchina lamentarsi, come se l’ultimo pasto fosse stato per lei in qualche misura dannoso. Sembrava che Bastiano fosse in qualche modo incompatibile con la macchina. Oppure, molto più semplicemente, non tutto era davvero descrivibile in una lunga stringa di zero e di uno. Esisteva ancora qualcosa che non era simulabile? Questa rivelazione mi investì con atroce violanza. Finalmente avevo chiaro il mio peccato: avevo preso un’idea – una buona idea, per giunta – e me ne ero cibato, commercializzandola e sottraendone lo spirito, avevo tradito in un colpo solo e ripetutamente i miei ideali in nome di uno spaventoso dio, la stabilità. Mentre questa tremenda consapevolezza si impadroniva di me riempiendomi di orrore, mi allontanai da quel macchinario infernale che avevo costruito. Un’arte senza anima, un’arte senza artisti. Forse non era mai stata sperimentazione, nemmeno agli albori: quanta superficialità, quanta assurda stupidità. Avevo
Quando era successo, in quale istante avevo smesso di assaporare il gusto delle cose? Alla fine, la mia anima mi era stata rivelata: ero il più tecnologico degli inetti. Finchè avevo dato una flebile vita ai sogni degli altri avevo iniziato a morire dentro un poco alla volta. Non avevo mai rischiato qualcosa di mio, lasciando intatte le mie potenzialità.
«Così facendo non hai mai corso il rischio di deludere te stesso», disse un sussurro che proveniva dal profondo.
Il senso di colpa che incombeva su di me d’un tratto divenne troppo gravoso per essere sopportato. Pieno di vergogna cercai di coprirmi il volto nascondendolo tra le mani, ma fu del tutto inutile: le vidi tutte. La processione delle Eteree Sembianze sfilarono davanti a me in una sorta di danza macabra: tutte uguali, lo stesso scheletro, la stessa forma, oggetti prodotti in serie che turbinavano, soffocandomi. Chiedevano di essere arte, chiedevano la vita.
Avrei dato qualsiasi cosa per far finire tutto questo. Sarei stato disposto a vendere l’anima per una manciata di amore. Un attimo soltanto, giusto il tempo di riempire i polmoni d’aria e cacciare un ululato cosmico.
In un impeto di redenzione, il mio sguardo si posò su quella mensola dimenticata. Lentamente, presi in mano un pennello.