L’ULTIMO SOGNO DI ERMES

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Ermes aveva sempre ritenuto che il suo nome portasse con sé una qualche sensazione di freschezza e gioventù. Molto meglio rispetto ad altri nomi dal sentore antico come Adelino, Guerrino oppure Fausto. Gli sembrava che alcune persone nascessero già con il sapore della senilità addosso. Come se il fatto stesso di chiamarsi come il dio messaggero potesse garantirgli vigore e giovinezza, un talismano contro l’avanzare dell’età e delle intemperie. Ma come per tutti, anche per Ermes era arrivato il momento di invecchiare.

Da cinque anni ormai se ne stava seduto in soggiorno sulla sua poltrona preferita, appoggiandosi al suo bastone, come se fosse sul punto di alzarsi da un momento all’altro per partire chissà dove. Il fatto era che non si alzava mai. All’inizio Gerardina era stata spaventata dal suo ostinato silenzio, ma poi aveva finito per accettare la cosa: forse suo marito si era arreso. Non rimanevano più passeggiate pomeridiane e blasfeme partite a briscola nel bar sotto casa: era l’ultimo del suo gruppo di amici.

Certo non si poteva dire che la sua vita fosse stata priva di momenti felici. Nato in un modesto quartiere di periferia, Ermes aveva passato i suoi primi anni spensierati, tra la scuola e le scorribande con i compagni di giochi. I ragazzini del quartiere si davano appuntamento nella piastra polivalente del quartiere, pronti a cimentarsi in giochi scalmanati, oppure per ammirare i motorini di quelli più grandi, che si appartavano poco distante per sperimentare il brivido della prima sigaretta fumata di nascosto.

L’uomo ricordava con dolcezza i suoi giorni da monello, quando spendeva le due monete da cinquecento lire che la mamma gli dava per le offerte domenicali in chiesa ai cabinati della sala giochi, cercando di arrivare all’ultimo quadro di Dragon’s Lair, oppure sfidando i suoi amici in uno scontro a Pong. Chissà se i suoi si erano mai accorti di dove finissero i soldi dell’elemosina…

Il tempo passava e crescevano dentro di Ermes le inquietudini e la voglia di ribellione di un adolescente. Gli anni del liceo furono particolarmente turbolenti quanto indimenticabili: i primi amori le prime cocenti delusioni, la voglia di trasgredire. Ogni giorno era un’avventura da vivere con gli amici di sempre.

Curioso come Ermes ricordasse così bene i giorni più lontani. Una felicità fatta di volti, attimi vissuti e persi come polvere nella tempesta. La vita era sembrata così corta, opaca. Forse un po’ troppo insoddisfacente. Che cosa aveva fatto, poi? Una vita come tanti, un ufficio e un capo, una moglie devota, i figli che crescono e pian piano abbandonano il nido per farvi ritorno solo durante le feste.  Gli stimoli migliori, le avventure più splendenti erano tutte dietro di lui. Ora c’era lui e l’implacabile realtà di quella sedia a rotelle.

Tutto questo era prima della malattia. Comparve nella sua vita all’improvviso. Il morbo dilagò all’interno del suo corpo. All’inizio l’invasione fu sotterranea e silenziosa, poi Ermes si accorse che qualcosa non andava: quello che prima era un fastidioso dolorino che non voleva saperne di andarsene non si era rivelato, come sperato, un acciacco dovuto all’età. Era soltanto l’inizio del calvario della chemioterapia.

Fu una dura lotta da portare avanti. Coraggio e determinazione, dicevano i medici. Ermes c’era, voleva esserci. Voleva vivere, espandendo tutto il vigore che sentiva di possedere. Grinta da vendere, quella di sempre. A testa alta contro la prova più impegnativa della sua vita.

Ma come in ogni guerra c’era un prezzo da pagare. Alla Morte aveva dovuto cedere qualcosa: la malattia se ne andò ma si portò via anche le sue gambe. Ermes era distrutto, anche se non voleva che gli altri se ne accorgessero. Lo scotto da pagare era stato davvero alto. Poteva perdere pezzi, ma non determinazione. Ma intanto cresceva dentro di sé la rabbia per il senso di impotenza che il suo nuovo corpo gli procurava. Ogni mattina si guardava allo specchio dell’ingresso: tutte le cose apparivano allungate, mentre lui era diventato così irrimediabilmente basso. «Questo non sono io», pensava mentre stringeva con forza il joystick della sedia a rotelle.

L’estate della sua vita era passata da tempo, ma cosa avrebbe dato per un giorno, un attimo soltanto da vivere con sprezzante spensieratezza. Quanto desiderava un gelato alla crema guarnito con more e lamponi selvatici appena colti. Quei profumi erano ormai sepolti da tempo.

Fu allora che, adagiandosi sul fianco, chiuse gli occhi. Il suo sesto senso lo fece destare un secondo dopo. E fu allora che lo vide.

Avvolto in un lampo di luce si ergeva, davanti a lui, un Angelo. Sembrava uscito da uno di quei quadri che Ermes aveva visto in chiesa: aveva l’aspetto di un giovane riccioluto, le caratteristiche ali dal piumaggio candido e indossava una tunica color porpora. Era per forza un Angelo, su questo non c’era il minimo dubbio. Il volto del vecchio si increspò in un sorriso buono e stanco, come quello dello scalatore quando conquista la vetta di una montagna. Sebbene la presenza di quell’essere ultraterreno avesse lasciato presagire che il suo tempo era ormai giunto, Ermes ancora sorrideva, come se avesse capito proprio in quell’istante la vita che cos’è.

«Ermes», l’Angelo lo chiamò a sé con una voce chiara come acqua di sorgente. «Ermes, è ora. Andiamo». Il vecchio chinò leggermente il capo, un tacito moto di assenso. La creatura ultraterrena gli offrì la mano e l’anziano per un attimo fu come abbagliato dall’immensa gloria di Dio.

Per un attimo soltanto, dimenticò il suo proposito; ma fu solo per un momento.

All’improvviso, Ermes afferrò saldamente la mano che gli veniva offerta e con fare deciso tirò a sé l’Angelo. L’araldo di Dio non si accorse mai della bastonata.

Era rimasto lì, su quella poltrona, per anni. I più pensavano che si fosse arreso, ma non era così: Ermes aveva semplicemente atteso, risparmiando energia.

L’anziano si avventò con rinnovato vigore sul messaggero divino, colpendolo ripetutamente con il bastone da passeggio con vigore crescente. Il povero malcapitato, frastornato e confuso, non potè fare a meno che subire la cieca furia di quello spirito indomito. Non seppe mai per quanto tempo quel vecchio fece scempio del suo splendido corpo. Non sentì mai dolore, nemmeno quando il vecchio gli recise le belle ali. Forse rimase li, in un bagno di sangue che nessuno vide mai. Mi piace pensare che semplicemente smise di esistere, come un pensiero dimenticato tra il sonno e la veglia.

Una folata di scirocco fece aprire la finestra. L’anziano proruppe in una fragorosa risata, prima di sparire tra le tendine svolazzanti.

Nessuno seppe mai che fine fece il vecchio Ermes. Forse volò via con le ali che si era guadagnato con inaudita ferocia. Forse da quel giovedì pomeriggio non si è mai fermato.

Ma una cosa la posso dire per certo: ovunque sia, ha vissuto una vita degna di essere vissuta.

menestrellino

Informazioni su Shiri Clod

Romantico cacciatore di chimere perso nella fantasia. Nato con ogni probabilità nell'epoca sbagliata. Un «clown irlandese», proprio come voleva Joyce
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