Eginardo racconta come a Carlo Magno piacesse svagarsi in montagna. Nulla era in grado di ristorarlo quanto l’allettante prospettiva di conquistare di volta in volta una cima sempre più impegnativa. Il franco passava quel poco tempo libero che gli impegni del comando permettevano passando in rassegna con lo sguardo i monti che poteva scorgere dal castello nel quale era acquartierato: ogni stagione una catena montuosa diversa, una nuova avventura all’orizzonte era sempre li ad aspettarlo.
L’ardente bramosia del poter affermare che su quelle vette coperte da una leggera foschia c’era stato per davvero, l’istinto dell’esploratore che gli ruggiva nell’animo, la voglia di primeggiare su tutti, soprattutto su Eginardo che a dirla tutta era goffo e lamentoso come una dama in uno di quei giorni. Che Carlo si dilettasse a prendere per le natiche il suo biografo mettendone in dubbio la virilità ogni volta che, stremato, avesse l’ardire di chiedere una pausa, questo Eginardo non lo scrisse mai.
L’imperatore, quando gli impegni di corte si facevano troppo pressanti, amava programmare un’escursione alla volta degli adorati monti pregustando la sfida della scalata e la conquista della vetta. Invero Carlo aveva un buon passo, forte di quel vigoroso corpo che traboccava di energie inesauribili. Pari alla voglia di aria di montagna in Carlo ardeva il desiderio della buona cucina. Non importa con quanta difficoltà potesse incedere il carro delle vettovaglie, il corpulento re non avrebbe rinunciato per nulla al mondo ai piacere della tavola e del frutto prelibato della vite.
Le scampagnate domenicali di Carlo si trasformavano così in autentiche carovane composte da cuochi, camerieri, servitori ma anche lo stato maggiore carolingio al gran completo: da una parte la vanità di Carlo imponeva al sovrano di avere sempre accanto a sé uomini che potessero testimoniare sulla sua grandezza, dall’altra nessuno osava contraddire Carlo che, invero, aveva un caratteraccio…
Capitò durante una di queste spedizioni che al re occorresse di espletare un bisogno fisiologico piuttosto corposo. Sfido io, con quei sontuosi banchetti a base di pernice arrosto. Il problema era che l’imperatore non poteva certo abbassarsi a defecare sulla nuda terra, come un comune popolano; aveva bisogno di appoggiare il culo reale su un pitale degno di questo nome, lo imponeva l’etichetta.
Impuntandosi così a non voler procedere di un passo ma rifiutandosi al tempo stesso di sospendere la scalata, ordinò che si presentassero seduta stante al suo cospetto architetti, scalpellini, muratori, manovali, lavoratori stagionali, preti, monaci, amanuensi, copisti: comandò così che venisse eretto un monastero: le strutture religiose erano infatti rinomate per ospitare i bagni più puliti e confortevoli.
Alla corte che guardava a questa stravaganza con fare interrogativo, rispose facendo spallucce. «Dato che c’ero…», fece il re all’uditorio che rispose con una fragorosa risata di convenienza. Il re, galvanizzato dalla risposta del pubblico, rincarò la dose con una massima popolare: «Se una cosa va fatta, tanto vale farla bene che altrimenti viene fuori una gran cagata!», tuonò il re, gioviale.
La monumentale opera venne completata a tempo record: un minuto in più Carlo non avrebbe resistito. Dopo un ragionevole quarto d’ora, Carlo, per dare senso alla giornata, istituì un ordine religioso a caso e, orgoglioso di aver dato un contributo al proliferare del messaggio cristiano anche durante un giorno festivo, si mise lo zaino in spalle e ripartì alla volta della meta con animo e intestino leggerissimi.
La favola spiega il perché i monasteri vennero eretti in luoghi isolati. La favola spiega inoltre la nascita del pic-nic aziendale. A pensarci bene, la favola insegna anche che se vuoi fare il buffone, parla di merda che vai sul sicuro.